Jacopo Ferrari. Dal Museo Guatelli.

di Marco Vallora



“ Il museo dell'ovvio” amava chiamarlo, con allegro auto-sarcasmo, vanificando il concetto stesso di museo, che non gli andava a genio. Lo diceva proprio: “Raccolgo di tutto, tranne che le cose preziose”. E così la sua casa colonica diventa poco a poco, meravigliosamente, “il regno del quotidiano”. Perché era capace proprio di gettar via un oggetto estetico bello, un 'pezzo da museo', o meglio di barattarlo saggiamente (non si crede abbia mai buttato via nemmeno uno spillo) e venderlo a caro prezzo, per portarsi poi a casa un rasoio arrugginito, un vecchio aratro sdentato, una zangola per fare il burro. 'Cose', che non avevan nulla a che fare con la Bellezza museale con  maiuscola, tranne forse la bellezza dolorosa del consumato, del masticato, del vissuto, insomma. Perché a lui gli oggetti interessavano solo se gli parlavano di persone, di sudore, di dramma e felicità domestica, per dirla con il Tolstoj populista. Se dietro c'era una storia, anche minima: la storia d'un tappo di coca-cola che, opportunamente pressato, diventa, coi suoi compagni di trincea, una sonante decorazione da tendina di salsamenteria. Un rosario laico. Oppure un odiato elmo da guerra crucco, trovato dopo la prima guerra, che diventa un complice scaldino da letto, il cosiddetto 'prete', oppure la grande scodella per misurare l'avena, o quello che di vegetale si raccoglie, da queste contrade contadine, tra Parma e Collecchio. Un uomo dalle mille vite, Ettore Guatelli: prima mezzadro, mestiere di famiglia, poi radiotecnico, in città, poi soldato, in guerra, ancora raccattatore di reperti bellici, poi antifascista, poi maestro di matematica -figurarsi, da queste parte autodidatte, un calcolino e via, la somma, per lo più, ovvero l'accumulo- ma soprattutto principe-raccoglitore di tutto quanto faccia mondo contadino. Dall'ombrello all'organetto di barberia, dalla scatola di biscotti all'abituccio della scimmia suonatrice, alla grande trebbiatrice. Ma non una, no, dieci, cento, mille, non riesci a capire mai dove la serie smette. Capannoni, stalle, anfratti, soffitte: non poteva certo permettersi una moglie, Guatelli, si sarebbero scannati dopo un giorno. E guai alle serve importune, che tolgono la polvere o ammazzano le ragnatele, pussa via (pare avesse un carattere infernale, Guatelli, ma subito simpatico ed accogliente, con chi condivideva la sua follia di tesaurizzare l'ovvio). Lo “scienziato dei dialetti” e dei racconti locali, come bene lo definì il genius loci, non solo della germanistica ma anche della 'parmigianità', Giorgio Cusatelli. Quante volte avrò sentito parlare di Ettore Guatelli e del suo Museo etno-contadino, dalle parti appunto di Ozzano Taro di Collecchio, che detto così pare un titolo nobiliare, ma appunto nobiliare del nulla, dell'usurato, del misero. Edotto anche da amici illustri e fidabili, come Zavattini, Tassi, e i Bertolucci, padre-Attilio-poeta ed i figli registi (molti di questi oggetti han recitato il loro ruolo 'storico' dentro il film Novecento, perché questo luogo incantato è davvero il sogno d'un ricercatore di trovarobato teatrale, se non il suo incubo. Perché non ne esci più). E quanti libri sul museo-non-museo di Guatelli avrò mai sfogliato, ripromettendoci un giorno di venirci, ma poi si sa, il tempo.... E c'è voluta l'intermediazione d'un mio intelligente allievo alla Facoltà di Architettura di Parma (oddio, non sarà mica l'ormai consueto ed odioso conflitto d'interesse... non credo proprio, basta verificare la sua perizia di fotografo d'arte... starà già storcendo il suo naso inflessibile, se mai mi leggerà. Perché questa definizione 'graziosa' non gli si addice, essendo lui inflessibile, ma le sue fotografie son comunque bellissime ed intelligenti e misteriose). Insomma c'è voluto il reincontro con il suo creativo lavoro-stetoscopio dentro il museo Guatelli, in occasione d'una rarefatta ma infallibile mostra, dentro quell'incanto ottico che è la Rocca di Fontanellato, per riscatenarmi la voglia e la curiosità, e convincermi  a spostarmi di qualche chilometro, sprofondandomi finalmente entro questo sortilegio stregato, che è il Museo Guatelli. Perché il vecchio maestro-narratore non si è limitato a cercare, stipare, raccogliere, davvero ossessivamente, comprare e scambiare (lo prendevano per il Matto delle Giuncaie, ovviamente, e si facevano pagare anche salato le loro baracchette e scartoffie. Lo schernivano alla spalle, sinchè poi non sono arrivati gli intellettuali entusiasti e i poeti-cantori,  le televisioni invasive ed i voluminosi servizi sui giornali. Anche lì, come si fa a contenere tutto in poche foto documentarie educate? Che sia sorto un altro caso-Ligabue?) . Ad un certo punto ha forse capito che doveva pur esporre, ordinare, mostrare tutto questo ben di dio accatastato ovunque, e ha incominciato a creare delle strane raggiere sgranate sulle pareti, degli ossessivi arabeschi, che salivano su per le stanze, sino a colmarle, come insetti bloccati da un incantesimo. Insomma, quell'arte che lui rifiutava e demonizzava, è tornata stregonescamente a galla, proprio come è successo al dadaista Scwhitters, cui forse in parte Ferrari si ispira, non dimenticando le innovazioni Bauhaus nella fotografia. E questa casa stipata, diventa un'immensa opera di art brut. Quello che stupisce invece nelle rigorose e calamitanti immagini del giovane Jacopo Ferrari è che, partendo da questo sconfinato macro-testo, senza più freni né fuoco ottico, questa sorta di Museo Soane della miseria e della fantasiosa creatività (quando la necessità appunto acuisce l'ingegno e nasce il design-naif, il design senza progetto. Se n'è ricordato persino l'Umberto Eco dell'ultimo saggio, sulla follia o passione dell'Elenco) ebbene quello che colpisce nelle immagini raggelate e calde del Ferrari  è che abbia saputo isolare alcuni dettagli soltanto, con sapienza nutrita appunto a Avanguardie & Bauhaus, e che, grazie all'uso d'una carta antica, da incisione dureriana ed il sollevamento rapito dei bianchi, dei vuoti, con la sola morsura drammatica e teatrale della 'tiratura', abbia 'scritto' un poema delle cose, davvero degno del poeta Ponge. Un'operazione architettonica esemplare, di reinvenzione straniata di un luogo. A dimostrazione della tesi della Sontag, che non è vero che la fotografia è la realtà, ma è quello che della realtà vogliamo o sappiamo vedere.


Il museo di Ettore

(2008)