Il Caseificio come pretesto

di Mario Cresci


In questo suo primo lavoro, Jacopo Ferrari sente ed esprime già una visione disincantata della realtà.  Ogni immagine pur essendo documento di un’azione, quella dei momenti di produzione di un’industria casearia, è anche espressione del modo di vedere personale dell’autore che prende le distanze dalla fotografia documentaristica di reportage.

Lo sguardo si muove infatti all’interno di un’importante vicenda del fotografare: quella della “fotografia oggettiva” punto nodale delle avanguardie artistiche del Novecento, della Bauhaus tedesca e del movimento razionalista europeo.

La citazione è doverosa per comprendere il senso generale del vedere di Jacopo, ma soprattutto del suo pensare la fotografia che testimonia, se ancora ce ne fosse bisogno, del valore cognitivo dell’atto del fotografare. Pensare la fotografia, anche per questo giovane autore, è il primo impegno per esprimere con questo mezzo, che già appartiene al sistema dell’arte, una personale visione del mondo, precedente alla sua volontà di comunicare attraverso  l’immagine fotografica, con-tenuti e valori personali che passano comunque attraverso gli studi di architettura e credo quindi a un modo di intendere la fotografia anche come l’area di un progetto visuale in cui le immagini sono costruite da uno sguardo attento sia alla poetica della luce, sia alla struttura di uno spazio fortemente plastico, che nasce dall’incontro ravvicinato dello sguardo al soggetto ripreso.

E’ importante non perdere di vista immagini fotografiche come queste di Jacopo Ferrari, che non devono confondersi nel “magma delle immagini opache” come le definiva Walter Benjamin nei suoi studi sulla fotografia.  Sono invece, queste di Jacopo, fotografie consapevoli del loro comunicare valori e funzioni insite nel tema trattato senza cadere nella sterile retorica descrittiva dei vari momenti di produzione.

Una notazione non solo di riflessione critica ma fortemente voluta come antitesi a un antico dogma che ancora persiste tra coloro che pensano che la fotografia,  “rappresenti il reale”  inteso come veridicità del soggetto e il mezzo fotografico come  l’unico linguaggio adatto a convalidare questa verità.

In realtà l’immagine fotografica è l’espressione, prima concettuale e poi visiva, del cambiamento del reale in un contesto spazio-temporale legato all’istantaneità dell’atto del vedere e insieme del fotografare. Simpaticamente definita perciò come l’arte della bugia, dell’alterazione del vero, dell’ambiguità percettiva e in sostanza del mutamento di senso del soggetto ripreso, la fotografia è un arte media che può trasformare qualsiasi soggetto in altro e quindi in altrettante verità non più riconducibili alle loro origini.


Il Caseificio

(2006)